di Morgana Piana
Oh, volete che ve ne parli? Dell’intervista allo schiavo?
Ma certamente.
Era un venerdì febbraio, uno di quei giorni nei quali da queste parti si sta in casa a guardare la tele, a leggere se sei un intellettuale o a dormire se sei uno che ha compreso davvero la vita.
Ma lì, tra le colline della Louisiana, il clima era alquanto mite, umido, ma mite.
Sembrava stesse per piovere, si sentiva nell’aria, il vento soffiava forte e l’erba lo seguiva a passo di danza.
E lì ho incontrato lo schiavo; ce ne erano tanti, tantissimi a dir la verità, marcati da cicatrici sulla schiena. E’ stata una fortuna non incontrare nessuno degli schiavisti lì, se ci avessero scoperto non sarei qui a raccontarvelo.
Ho cercato di comportarmi in modo da confondermi con la gente dell’epoca il meglio che potevo, ma era difficile, probabilmente facevo solo ridere, una della GenZ nel 1700.
Lo schiavo con cui parlai era buono, lo si vedeva dagli occhi, stanchi ma gentili.
Sembrava sapere chi fossi e da dove venissi, mi misi a parlare con lui, gli feci le solite domande, cosa coltivavano, come li trattavano, quanto lavoravano ecc.
Risposte secche: cotone, male, troppo.
Decisi di cambiare argomento, parlai di me, dell’attualità, di cosa stava succedendo da noi, nel 2025.
Quando gli dissi che la sua realtà sarebbe migliorata la sua espressione cambiò, non so come, ma cambiò.
Ma dopo certi argomenti, come i lavori sottopagati in così tante parti del mondo, le guerre, la povertà, l’odio, il razzismo, il menefreghismo... ritornò a come lo avevo incontrato, allo stesso sguardo.
“Lo sapevo...”, disse poi all’improvviso, interrompendomi mentre gli raccontavo di Trump e di come aveva espulso i migranti con un aereo militare.
“Lo sapevo io, che il mondo non cambia mai. O, perlomeno, non cambierà finché le persone non smetteranno di avere bisogno di un capro espiatorio su cui rovesciare tutto il loro odio.”