venerdì 30 aprile 2021

LA PAROLA DEL GIORNO

 “RESISTENZA”


La parola “resistenza” siamo soliti “ripescarla” fra quelle che definirei parole “poetiche”, in ogni occasione che ci riporta alla mente un fatto, un evento, legati ad esse.

In questo caso specifico la parola “resistenza” la associamo al 25 aprile: la Giornata della liberazione d’Italia dall’occupazione nazista e dal fascismo. “Resistenza” acquista un certo sentimento di forza, amore per la patria (vissuto in modo non conservatore) e di unione.

Ma cosa significa in sé la parola “Resistenza”?

Il termine deriva dal sanscrito: “Stha-“, ovvero saldare, fermare, e “re-“, cioè indietro. Letteralmente “resistenza”, quindi indica mantenere la propria posizione solida e opposta nei confronti di un qualcosa, o di qualcuno, che rischia di “sradicarla”.

“Opporsi a un’azione, contrastandone l’attuazione e impedendone o limitandone gli effetti”- Dal Vocabolario Treccani. 

Come molte parole, Resistenza viene usata in diversi ambiti, non solo quello storico: in ambito medico (insulino-resistenza), in fisica (la resistenza elettrica), nella quotidianità, quando resistiamo alla tentazione di guardare dieci episodi di una serie tv, mentre i compiti, sulla scrivania, sono in attesa di essere svolti,…




Ci sono infiniti “impieghi” per la “resistenza”, ma tutti sono accomunati da quella forza che ci fa piantare le radici in una posizione che si oppone a quella che sta per investirci.

Sicuramente la pandemia è stata una di quelle.

Non voglio parlare della lotta al Covid-19, della crisi politica ed economica che lo Stato sta attraversando, della situazione psicologica di tutti i cittadini, che stanno “resistendo” sempre meno. 

Credo che la resistenza non stia nel rimuginare su quello che abbiamo perso, su quello che stiamo perdendo, sul dolore che ci viene inflitto.

La resistenza, oggi, sta nel cercare di guardare al futuro, e stringere i denti, fino a quando si potrà lasciar andare quella morsa.




venerdì 23 aprile 2021

LA PAROLA DEL GIORNO

 RAVE

La parola "Rave" nasce dal verbo inglese "to rave" che significa "entusiasmarsi" "andare in delirio", ma la parola "Raver" fu probabilmente utilizzata per la prima volta dai giornalisti inglesi per attaccare i fan del jazz ritenuti troppo "entusiasmati" per il festival di Beaulieu nel 1961.

Il movimento dei "Rave party" o "Free Party" è in verità definito come una manifestazione di tipo musicale gratuita e autogestita: il che sta a significare che negli spazi in cui si svolge, solitamente luoghi isolati sia all'aperto che al chiuso, si creano molto spesso dei veri e propri " Villaggi" con decorazioni, tende, camper e furgoni che sono anche soliti attrezzarsi per la vendita di cibo, bevande, gadget, bigiotteria fatta a mano e svariate altre cose. Il ritmo che caratterizza questi eventi si può ricollegare benissimo alle più antiche forme di balli delle culture primitive, infatti è il suono delle percussioni, che con l'avanzare degli anni e il miglioramento delle tecnologie, è diventato la base per moltissimi generi come la Tekno, la Techno, la Goa, la drum&bass e la Jungle. Spesso la musica è accompagnata da performance di artisti e giocolieri.

Il concetto di Rave party nasce tra gli anni '70 e '80 soprattutto in Gran Bretagna dove la controcultura hippy stava dando vita al movimento dei "traveller": nomadi spesso dediti a organizzare grandi fiere gratuite che diventavano luoghi d'incontro per tutti i movimenti di cultura alternativa come il punk, il rock psichedelico, i sound system e in particolare le crew che organizzavano feste acid house o suonavano nei locali. Infatti per questi ultimi il problema era proprio la chiusura dei locali ad ore preste che li spingeva a spostarsi in luoghi esterni come fabbriche abbandonate, capannoni industriali e boschi.
Le minoranze in questo modo volevano denunciare tutti i problemi imposti dal sistema, che in quegli anni imponeva divieti, repressioni e controlli, evidenziando problemi economici e sociali senza però rinunciare a un concetto di aggregazione che li rendeva anche più uniti e forti.
Nell'ultimo decennio questi eventi sono diminuiti e si sono orientati a un pubblico più ristretto, ma nell'est Europa padroneggiano ancora soprattutto per quanto riguarda la scena Goa e i Festival Psy-trance.



Purtroppo molta gente riconduce questa parola a fatti di cronaca nera perché gli editori locali se ne occupano dando risalto solo a risse, incidenti, sequestri di droga e assembramenti, compromettendo spesso le informazioni e utilizzando foto fasulle che non sono inerenti a questi eventi. Si tratta infatti di una strategia di marketing di eventi e stratagemmi giornalistici per attirare l'attenzione su eventi di massa che magari non hanno nulla a che fare con l'estetica, i valori e la musica originaria di questa scena. 
In Italia soprattutto sono visti come luoghi in cui circolano sostante stupefacenti illegali, quando invece all'interno delle feste meglio organizzate vengono organizzate delle campagne di informazione proprio per evitare l'uso irresponsabile di queste sostanze. In alcuni Paesi vengono addirittura contattati dalle crew e dagli organizzatori quegli enti statali, o non, che si occupano proprio di "riduzione del rischio" distribuendo volantini, istituendo stand ("info drugs") con specialisti a cui fare riferimento e delle "chill zone" dove potersi riposare, trovare acqua e anche paramedici pronti ad aiutare in caso di necessità. 



Hakim Bey li definisce come "Zone Temporaneamente Autonome": luoghi momentaneamente occupati dove i partecipanti possono sentirsi liberi e invisibili, lontano dalle autorità e dal giudizio della gente. Il loro motto è "PLUR": peace, love, unity, respect!


lunedì 19 aprile 2021

PRIMA FU LA VOLTA DEI MIGRANTI



La splendida interpretazione grafica - ad opera di Michele Ramondetti - della lezione/spettacolo "Prima fu la volta dei migranti" a cui alcune classi del Liceo Artistico hanno potuto assistere grazie al lavoro e all'impegno della Compagnia del Birùn, associazione culturale e teatrale di Peveragno che si è fatta carico dell'onere economico e promotrice culturale dell'iniziativa.

Sulla homepage potrete inoltre trovare la recensione dell'evento (firmata da Anastasia Arese) e un articolo che prende spunto dal tema delle migrazioni in Europa (di Andrea Olla). Buona lettura!

A MARGINE DELLA LEZIONE/SPETTACOLO "PRIMA FU LA VOLTA DEI MIGRANTI"

 

Andrea Olla


Non è sicuramente la prima occasione in cui sento parlare di migrazione, è forse da quando sono nato che, ascoltando quel poco che del telegiornale riuscivo a capire e i discorsi in casa, ho avuto coscienza di cosa si trattasse. Purtroppo è solo da qualche anno che si sensibilizza su questa tematica nelle scuole, in antitesi a buona parte della cronaca o della politica. La nostra pelle bianca è sempre stata al riparo dalle bombe, dalle torture, il nostro stomaco è sempre stato pieno, abbiamo sempre nuotato nel caldo Mar Mediterraneo estivo delle nostre spiagge. La stessa acqua salata che a noi evoca i ricordi una bella vacanza, per un immigrato è una sfida da affrontare, una partita a dadi con la morte.

L'uomo ha cominciato a migrare prima di definirsi tale, prima ancora che qualcuno ci facesse fare l' "aggiornamento" che ci ha permesso di camminare su due "zampe". E' nella natura dell'homo cercare un habitat migliore dove sopravvivere, non c'è quindi cosa più umana di voler migliorare la propria condizione o tanto più di voler salvare la propria vita.

Oggi, in qualunque Stato che non sia in una profonda crisi economica o in guerra civile, è tutto comodo e organizzato: la sanità è efficiente, ci sono supermercati, quasi tutti possiedono una lavatrice, un forno a microonde... ma non ovunque è così.

Molto spesso quando si parla di questo argomento ci si sente rispondere che non è colpa nostra, o dire che potrebbero stare nel loro Paese come noi stiamo nel nostro, con slogan come "aiutiamoli a casa loro", dimenticando che sì, siamo anche noi responsabili di aver reso l'Africa un continente del terzo mondo. Durante l'ondata di colonizzazione africana cominciata a partire dell' XI secolo e conclusa nel Novecento abbiamo rubato materie prime, abbiamo eliminato o schiavizzato migliaia di popolazioni e abbiamo portato malattie non autoctone . Non parlo solo degli altri stati potenti d'Europa, anche l'Italia durante i periodi storico-politici più illuminati così come in quelli bui ha sempre inseguito il sogno del "posto al sole". Molti di noi ricordano solo il genocidio in Etiopia del ventennio fascista, ma lo stesso Giovanni Giolitti, uno dei più grandi statisti della nostra storia, ha avviato una campagna militare in Libia.

Viviamo in un'epoca in cui la politica si aggrappa alle paure più condivise dagli elettori per creare discorsi strutturati ad hoc per sollevare polveroni d'odio e discriminazione. Purtroppo in Italia in questi ultimi dieci anni quello dei "porti chiusi" è praticamente diventato un trend, ma c'è veramente bisogno di fermare una invasione? Il principale risultato di alcuni dati ISTAT è che la presenza straniera in Italia è superiore alla media europea, ma in linea, o inferiore, agli altri Paesi con cui di solito ci si paragona: in Austria i cittadini stranieri sono pari al 16% della popolazione, in Irlanda, Belgio e Germania questo dato si aggira intorno al 12%, e in Italia? 8,8%.

C'è da aggiungere poi che ovviamente non si parla di 5 milioni e mezzo di immigrati africani, senza qualifiche o che ha sempre vissuto in povertà, infatti quasi tre milioni provengono da Romania, Marocco, Albania, Cina e Ucraina.

Se, nonostante i dati ufficiali sfatino il mito dell'invasione, ancora gran parte della popolazione italiana votante si schiera a favore della chiusura dei porti significa che c'è una evidente distorsione di come viene percepito il problema. Ringrazio infatti attrici e collaboratori del progetto teatrale "Prima fu la volta dei migranti" (e non solo, non sono gli unici) che, nonostante le difficoltà nel proseguire questa attività a distanza si impegnano per invertire la rotta dell'opinione pubblica partendo dai più giovani. In Italia il problema legato ai fenomeni migratori non è rappresentato dagli immigrati, ma dalla discriminazione e dall'egoismo. Tutti quei governi che cavalcano l'onda dei porti chiusi aboliscono gli SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) rendendo l'integrazione ancora più complicata e peggiorano la situazione.

Il trailer: https://youtu.be/V1zZDl2m-9Y


venerdì 16 aprile 2021

LA PAROLA DEL GIORNO

 

ENTUSIASMO


Secondo Treccani è un sentimento intenso di gioia, di ammirazione, di desiderio per qualche cosa o per qualcuno, oppure totale dedizione a una causa, a un ideale, ecc...
Utilizziamo questa parola nel linguaggio quotidiano come se fosse un semplice sinonimo, superlativo di esaltazione o allegria, ma nella sua origine nasconde un significato molto più forte. Deriva dal greco ἐνϑουσιασμός, derivazione di ἐνϑουσιάζω «essere ispirato», da ἔνϑεος «in» e ϑεός «dio». Ricorre per la prima volta in Platone e indicava la condizione di chi era invaso, dominato da una forza divina: uno stato cioè di esaltazione, che toglie a chi la prova il controllo dei propri atti e gli dà la coscienza di essere intimamente unito con una divinità, che è quella che veramente opera.
Per Platone, tuttavia, ἔνϑεοι sono, almeno in un primo tempo, tipicamente i poeti in quanto traggono ogni loro sapienza dall'ispirazione della musa e non sanno quindi render conto di ciò che dicono quando sono invasati dal nume.
Non significa quindi solo essere felici a causa di qualcosa, ma l'essere invasi da un'ispirazione, un'eccitazione così forte da non essere concepita dagli antichi come umana. L'unica spiegazione che furono in grado di attribuire a questa condizione era la manifestazione di una presenza silente dentro di noi, qualcosa di soprannaturale e mistico.
Può essere paragonato all'effetto dell'abuso di alcool, di droga o di un condizionamento ipnotico o addirittura ad un'eccitazione sessuale, e che induce alterazioni dei processi cerebrali. La verità è che il nostro cervello è un potentissimo generatore di energia positiva in grado di donarci picchi di ispirazione e determinazione; senza nessun intervento esterno concatena collegamenti cerebrali e ci porta a sentirci unici, capaci di tutto e in profonda connessione con chi siamo, cosa amiamo e con i nostri ideali più atavici.


Nel corso della storia ha visto numerose interpretazioni fino ad acquisire il significato moderno: nella storia del Cristianesimo Il termine è stato applicato a gruppi e movimenti religiosi come il Montanismo del II secolo o quello dei Messaliani. Essi credevano che attraverso la costante preghiera, pratiche ascetiche e contemplazione, si potesse essere ispirati dallo Spirito Santo e che questi così sostituisse lo spirito malvagio che dimora in ogni creatura umana. Durante gli anni immediatamente seguenti la seconda rivoluzione inglese, era definito come "entusiasmo" ogni promozione militante e affermazione pubblica con idee rivoluzionarie.

venerdì 9 aprile 2021

LA PAROLA DEL GIORNO

 

INTELLIGENZA


Beh, qui non occorrono grosse spiegazioni, no? 


L'intelligenza è l'insieme di quelle facoltà cognitive ed emotive che consentono a noi animali di fare pensieri complessi e reagire a diverse situazioni. 


E' una parola che siamo abituati ad usare e sentire spesso, anche perché è una cosa che possediamo tutti (anche se spesso non si direbbe), dunque... cosa ci fa in questa rubrica?
Beh, voglio presentarvela perché recentemente mi è capitato di scoprire l'etimologia di questa parola, cioè l'origine del suo significato.


"Intelligentia", in latino, derivava dal verbo intelligere (capire) che altro non è che la forma abbreviata di “inter-leggere”, cioè “leggere dentro”. L'intelligenza è dunque letteralmente la capacità di stabilire collegamenti, di capire la vera natura insita nelle cose... come si dice comunemente, di “leggere tra le righe”. Intelligente è colui che non si ferma alle apparenze ma indaga in profondità, chi non si accontenta... non vuol dire chi ha bei voti a scuola.
Non occorre adoperare desueti termini astrusi e mefistofelici (come questi), spesso le parole che usiamo quotidianamente, snaturandole, sono molto meglio se ne si conosce la storia, e credo che sia veramente interessante conoscere l'etimo di certe parole e capire come e quanto nel tempo abbiano mutato il loro originario significato.
Per fare un esempio vi aggiungo una parola bonus: se intelligenza significa “leggere dentro”, sapevate che in latino “educare”, al contrario, vuol dire “tirare fuori”?...




mercoledì 7 aprile 2021

Il teatro a scuola

 

PRIMA FU LA VOLTA DEI MIGRANTI: INCHIESTA SULL’EUROPA DEI MURI…
Una nuova “frontiera” per gli interventi nelle scuole.


Anastasia Arese


Da un anno a questa parte, come gli spettacoli e i concerti nei teatri, e non solo, anche gli interventi nelle classi e le lezioni-teatro sono stati annullati.

Questi ultimi rappresentano uno strumento importantissimo per gli studenti sia per la possibilità di creare cultura generale e dibattiti, sia per poter sdrammatizzare la “canonica” lezione frontale.

Come ovviare a questo problema?

Almateatro, e l’Associazione Baretti, con la regia di Gabriella Bordin, hanno “tradotto” in “termini” digitali la lezione in forma teatrale “Prima fu la volta dei migranti”, un progetto andato in scena per la prima volta nel 2019, al Teatro Baretti di Torino.

Al posto del palcoscenico? Due schermate di Google Meet. E al posto della scenografia? una presentazione sulla medesima piattaforma.

Di certo il contatto e l’ambientazione non sono stati quelli che solo il “live” può dare, ma Elena Ruzza e la coprotagonista Suad Omar, la quale ha anche realizzato delle poesie che si sono intrecciate nella trama, hanno saputo gestire lo scambio di battute come se fossero state su un palco, davanti a un pubblico in carne e ossa, e non a uno schermo.

L’obiettivo di questa lezione “teatrale” è stato innanzitutto quello di ripercorrere le tappe e le scelte importanti che l’Unione Europea ha compiuto fino ad oggi, e che l’hanno portata a essere “l’Europa dei muri”: dalla “CECA” del 1951, che ha sancito gli inizi dell’Unione, fino al trattato di Lisbona (2007) con la stabilizzazione e il rafforzamento della UE.

Muri sia fisici che mentali.

Il racconto, infatti, mette al centro la storia di persone che hanno subito le conseguenze della costruzione di questi confini. Persone per cui l’Europa rappresenta un sogno di libertà, in cui potersi spostare liberamente e potersi costruire una vita, contrapposte a chi vi sta dentro, che considera quella libertà non un diritto, ma un privilegio, una seconda pelle, inconscia, da dover proteggere a tutti i costi, anche quelli della dignità umana (altrui).

Lo spettacolo teatrale è stato stimolante e commovente; ha fatto nascere dibattiti, riflessioni e idee fra gli spettatori, mentre l’esperienza online ha superato il “muro" della distanza che separava fisicamente le attrici, il pubblico, e ha portato nuovo prospettive nei confronti di una problematica attuale, che, durante la pandemia, è stata “confinata” nell’indifferenza.








martedì 6 aprile 2021

BAND EMERGENTI


The hard workers band


Lucia Maite Cavallera


È il momento di parlare un po’ di musica!
La musica costituisce da sempre il sottofondo perfetto per ogni momento della nostra vita, pensate che brutto un mondo senza, sarebbe come vedere un film senza colonna sonora! 
Ascoltiamo canzoni quando viaggiamo, quando stiamo in compagnia, quando siamo soli, quando siamo felici o tristi e può essere anche un appiglio per momenti difficili come quello che stiamo vivendo adesso. Farsi aiutare dalla musica non è mai una cattiva scelta.
Purtroppo i concerti live sono ormai banditi da un anno, gli artisti non si esibiscono più e noi non possiamo più provare le bellissime emozioni che ci donava la musica dal vivo. Questo ovviamente è un problema che sta colpendo anche le piccole band emergenti dei paesi più piccoli che prediligono esibirsi a contatto con il pubblico. 
Ci sono molte band e artisti, anche nel cuneese, che sono a noi sconosciuti ma che potrebbero essere molto affini ai nostri gusti o aprirci a nuovi orizzonti, bisogna solo scoprirli!
Per questo oggi introdurrò una band emergente del monregalese che mi sta molto a cuore, gli Hard Workers.



 

Sono una family band che nasce all’interno della Cascina Macramè, che non solo è la sede del gruppo, ma anche un collettivo di promozione musicale che organizza diverse iniziative come il Festival di musica indipendente “Forrest Camp” e il progetto Green Circus. La band, composta da una batteria e una pianola (i due fratelli Donda), un basso (il padre) e una chitarra elettrica e voce (“il figlio adottivo”, grande amico dei ragazzi) riesce a creare un sound che invoglia a ballare grazie ai ritmi reggae arricchiti da suoni Synth elettronici, che insieme a una sonorità dub-rock creano una musicalità spesso psichedelica, ma che lascia spazio anche ad altri ritmi, come in alcune canzoni in cui le parti di voce hanno un flow più veloce quasi “rappato”.
Si tratta di una band abile a esibirsi sul palco, che invita il pubblico a lasciarsi trasportare dai loro pezzi unici, scritti e composti in proprio; e propone ai locali di musica dal vivo una produzione di brani registrata in live, senza sovraincisioni, dando in questo modo un’immagine reale di ciò che portano in concerto.

I brani sono disponibili su Youtube e Spotify.
Allego qui una serie di link con i video della band, alcuni live in pubblico ed altri in studio, sperando di poterli sentire presto dal vivo!




Video intervista al Festival “Forrest Camp” in Cascina Macramè:



lunedì 5 aprile 2021

La macchina del tempo

Anastasia Arese

Cara Charlotte,

ti scrivo da in un periodo storico di trambusto, in cui l’arte non ha davvero un posto. Arte, musica e cultura vengo considerate solo un lusso, un vezzo di pochi e sono sempre meno le persone che voglio fare di lavoro solo ed esclusivamente gli artisti.
Possono essere diversi i motivi.
Ad esempio il fatto che ad oggi l’arte, intesa non solo in senso figurativo, viene considerata come obsoleta: in fondo, perché stare ancora a creare qualcosa con la propria immaginazione, quando abbiamo la tecnologia avanzata che può svolgere tutto il lavoro schiacciando solamente qualche tasto? Perché riflettere su concetti “astratti”, che non
portano a nessun risultato materiale, quando invece si potrebbe pensare a studiare economia?
Oppure potrebbe essere il fatto che l’arte, oggi, grazie anche ai social (un mezzo di comunicazione che mette in contatto persone da tutte le parti del mondo) che aprono virtualmente le gallerie d’arte, le mostre a tutti…, è alla portata di chiunque, e non in senso positivo, perché non rappresenta più una fonte disponibile solo a un’élite e inarrivabile per il popolo. La sua importanza, la sua bellezza, sono state sminuite, dalla eccessiva disponibilità, che spesso priva i concetti del loro vero significato.
L’arte è stata privata di tutte le sue qualità, non è più un mezzo di comunicazione, d’espressione, ma è solo più un banale fine, senza strumento, che deve colpire il gusto estetico comune istantaneamente, in attesa di una nuova opera, che soppianterà quella precedente.
Ma l’arte non è solo questo…
Ho voluto prendere come spunto la tua storia, perché, oltre che per il triste destino, segnato sin dal tuo nome, mi ha colpito anche il rapporto che hai avuto con l’arte.


A noi sono arrivati i lavori che in soli ventisei anni di vita sei riuscita a produrre. Uno dei più importanti, e su cui vorrei soffermarmi oggi è: “Vita o teatro?” 
Un'unione fra dipinti e “Singspiel”, ovvero composizioni tipiche della Germania, che uniscono recitazione, musica e canto. Un viaggio nella storia della tua vita in milletrecento disegni, realizzati con la tecnica del guazzo. In molti, oggi lo paragonano allo story-board di un film, oppure a un fumetto. Altri ancora a un manoscritto medioevale oppure a una Grafic Novel.
Personalmente lo definirei un “Carnet de Voyage”, un quaderno che ti ha seguito, in cui hai raccontato molto di te, delle tue sofferenze e della Shoa, fino alla fine, quando, prima di essere deportata e poi uccisa l’hai affidato a qualcuno che potesse proteggerlo.
Il racconto di un caos che nasce da dentro, dai tuoi rapporti, dalla tua famiglia, e che poi arriva a scontrarsi, quasi come per un gioco infimo del destino con il caos dell’esterno, della furia Nazista.
Esplori molti aspetti all’interno della tua opera e vorrei concentrarmi su un dettaglio, ovvero lo scopo dei tuoi disegni. Oltre che servirti a raccontare di te, l’arte per te ha avuto un ruolo di cura, prima dalle crisi depressive - causate dalla dolorosa scoperta delle morti nella tua famiglia - da cui riesci sempre, grazie proprio all’arte, a riemergere, a non sprofondare nel vuoto, poi dall’odio razziale che cresceva intorno a te nella società.
Ed è proprio la “cura”, uno dei miliardi di significati dell’arte, che oggi sembrano essere stati dimenticati. Ma in che modo l’arte può curare?
“Arte” deriva dalla radice ariana “ar-“, che in sanscrito significa andare verso, produrre fare.
In latino “ars” si ricollega alle abilità, materiali o spirituali, che mirano a costruire qualcosa.
Rielaborare i pensieri, le esperienze che abbiamo vissuto, e ciò che abbiamo visto, e tradurre tutto ciò in un qualcosa che ha dentro non solo l’esperienza, ma anche, e inevitabilmente, qualcosa di nostro. Sta in questo la cura dell’arte.
Nelle tue opere, questo elemento traspare profondamente. Si sussegue il confronto fra la realtà di ciò che hai davvero vissuto e il “teatro”, ovvero la rielaborazione. Non esiste finzione, perché l’arte diventa una vera e propria terapia, in cui, via via che si procede verso la fine, non mutano solo gli scenari e i testi, ma anche i tratti, sempre più frenetici, come se da un momento all’altro quei fogli potessero esserti strappati di mano….
Oggi la gente si è dimenticata di questo aspetto dell’arte, e la denigra. Non si rende conto che essa, in tutte le sue forme (disegno, musica, scrittura,…) è il migliore mezzo per poter non solo comunicare stati d’animo, ricordi, esperienze, ma anche per rielaborare, riflettere, e tirare fuori, inconsciamente, un qualcosa che appartiene solo ed esclusivamente al noi.
Non bisogna per forza essere bravi a dipingere, o suonare uno strumento. L’arte sta in tutto ciò che facciamo ogni giorno, in tutte le cose che amiamo e che ci fanno stare bene,
e che, innegabilmente, esprimono qualcosa del nostro Io più profondo.
“Realtà o Teatro?” oggi rappresenta non solo un documento della ferocia nazista e della tua vita tormentata, ma anche un elemento importante nell’arte moderna, che si è spinta sempre di più verso l’espressione del “come” un soggetto ci fa sentire, invece di “come” si presenta, proprio come hai espresso nelle tue opere, il cui tratto segue la trama delle tue sensazioni e di ciò che ti accadeva intorno e di ciò che vivevi. Ed è un po' quello che dovrebbero fare tutti con l’arte: “usarla” come una stupenda e intricata compagna di viaggio.

Spero che questa lettera ti abbia fatto piacere, chissà se ne hai già ricevute, da così lontano (nel tempo). 
Tua, Anastasia.

Ps. Charlotte Salomon (1917-1943) è stata una pittrice tedesca, di origini ebraiche. Le fu affidato il nome della zia, morta suicida anni prima della sua nascita; la stessa sorte toccò alla mamma e ad altri parenti della sua famiglia, e rappresenta un argomento ricorrente nei suoi dipinti. Dopo aver passato pochi anni all’ Accademia di Belle Arti di Berlino, ha dovuto lasciare il suo percorso a causa del clima antisemita in crescita in quell’epoca. Gli ultimi anni della sua vita sono destinati alla fuga dai nazisti, che alla fine cattureranno lei e il marito.
Verrà uccisa lo stesso giorno del suo arrivo ad Auschwitz. 
Alcuni dei suoi lavori sono stati portati ai genitori, solo dopo la sua morte, e dopo molti anni
sono stati donati al Museo storico Ebraico di Amsterdam.






The next day - Seconda puntata

 

RAINBOW CAN CHANGE

Ginevra Di Pasqua

Il cellulare sul comodino suonò echeggiando in una stanza buia dalle pareti azzurro pastello. Jayden ci posò poco delicatamente la mano e rispose con la calma di chi è appena stato svegliato alle quattro del mattino: “Pronto...?!” Dall’altro capo non arrivò risposta, l’unica cosa che si sentiva era lo scoppiettare di un fuoco e dopo pochi secondi uno scroscio d’acqua improvviso, poi più nulla. Rimase a fissare lo schermo del cellulare e poi capì, sorrise e rimise a posto il cellulare attaccandolo allo spinotto della carica. “Chi era?” A parlare era stato Nicolas, l’uomo alla sua sinistra “Nessuno tesoro, torna a dormire”. Lui scrollò le spalle e si giròe fissando la parete “Sai che puoi dirmi tutto, vero?”, disse dopo secondi di silenzio. Jayden sentì un lieve brivido “Certo. Lo so”.

Tre ore più tardi Nicolas era già partito per andare al lavoro e lui aveva più di cinque ore per prepararsi a incontrare l’interlocutore che lo aveva disturbato quella mattina. Mise una camicia bianca e un gillet di lana color legno sopra a un paio di semplici jeans e dei mocassini neri. D’aspetto fisico era perfettamente identico a un qualunque uomo di mezza età che andava al lavoro, non doveva nemmeno provare a fare finta ormai. Raggiunse un vecchio parco alla periferia di Londra, non molto frequentato, che rimaneva comunque delizioso nella sua semplicità. La vide subito, seduta sul ramo di un albero con i suoi poco appariscenti capelli rosa; non dimostrava più di diciotto anni e indossava un semplice completo top-gonna nero, degli stivali dalla suola alta almeno cinque centimetri e una grande giacca olografica. Appena lo vide scese dall’albero euforica e corse ad abbracciarlo “Quanto mi sei mancato!” disse subito in preda alla felicità. “Non ci vediamo dal 1941, che hai fatto finora anziché cercarmi brutto piccolo...“... Si interruppe quando finalmente si staccò e lo guardò in faccia. “Oh, mia Sole, che diamine ti è successo?”. Jayden sospirò e la fissò in silenzio per un po’. “Arley…”, iniziò senza sapere esattamente cosa dire. “Sono successe molte cose…”. “Questo lo vedo”, lo interruppe lei, cambiando lentamente espressione. Se prima era felice come una Pasqua adesso sembrava stesse guardando uno sconosciuto. “In Argentina... Dopo la fine della guerra ho voluto aspettare ancora un po’ di anni per bloccare sul nascere dei gruppi nazisti, poi ho incontrato un uomo, si chiama Nicolas”. “Non ti seguo”, interruppe di nuovo, ma in realtà aveva capito benissimo cos’era successo. “Mi sono sposato, ti spaventa tanto come idea? Pensavo che saresti stata entusiasta... perché è un uomo”. Arley sforzò un sorriso e rispose un po’ nel panico: “Non è il fatto del matrimonio in sé e nemmeno per il fatto che sia un uomo, lo sapevo già... Guardati, sei cambiato, non sei più come prima, è davvero questa la vita che vuoi? E quando morirà? Ci siamo sempre detti di impedirci di affezionarci ai mortali, portano solo male, e quando invecchierà? Invecchierai anche tu? Rimarrai un vecchio per sempre oppure...” Si fermò un po’ per riprendere fiato e un po’ perché non aveva il coraggio di andare avanti. “Lo sai... se ti leghi troppo alla vita di un umano cominci a seguirla, fino alla fine… Sei sicuro di quello che stai facendo?!”. Stava iniziando a scaldarsi, cercò tuttavia di mantenere la calma. “Arley… lo so bene, ma è diverso, io sono diverso da te e, sì, sono cambiato da quando mi conoscevi tu e...“. “Anche io devo dirti una cosa”. Si era dimenticato quanto desse il nervoso la sua brutta abitudine di interrompere chi parla. “Ho conosciuto Charlie dopo la guerra… Con lui c’era qualcuno di cui non ti ho mai parlato, l’avevo incontrato circa un secolo prima e mi aveva parlato di lui… Dopo di noi Sole e Luno hanno fatto un altro tentativo e quella volta è andata bene. Si chiama Niran ed era il loro diretto sottoposto, una sorta di consigliere e comandante; sapeva di noi e ha formato un gruppo di angeli di cui si fidava completamente e organizzato un modo per scendere qui sulla Terra senza che nessuno lo sapesse. Avevano creato un corpo identico al suo e quando li scoprirono li videro come una sorta di fanclub, Sole cancellò la memoria a tutti meno che a lui che sfruttò il corpo per inscenare la sua morte e venire da noi. Morale della favola? Da dopo la guerra lui, Charlie ed io stiamo organizzando un modo per riscattarci! Potremmo finalmente far capire a tutti quei bastardi che cosa significa vivere come noi! Saremo la prima rivoluzione contro il cielo ci pensi?!”

No.”

Fu una risposta decisa, talmente decisa che Arley abbandonò di colpo tutto il suo entusiasmo “… In che senso no?” “No, io sono felice adesso, ho un marito che mi ama, una casa, un lavoro e mi sento umano per la prima volta, non mi importa se potrebbe portarmi alla morte, non è meno suicida della tua idea, ma almeno vivrò finalmente una vita in pace senza sentirmi diverso... mi dispiace ma per me è un no”. L’entusiasmo le si spense in volto per la seconda volta e per un po’ non seppe come rispondere, scosse lievemente la testa, gli occhi blu cominciarono a scurirsi leggermente fino a tendere a un viola caldo e si spostarono in un punto casuale alla sua destra e poi a sinistra senza sapere esattamente cosa guardare. “Va bene… come preferisci… io devo andare, con Charlie ci siamo trasferiti a un’oretta da qui, se cambi idea chiamami”. Chiuse la conversazione e lasciò il parco dalla parte opposta da cui era entrato Jayden, lui poteva scommettere di averle visto battere i piedi come una bambina. “Nicolas”, disse a voce alta una volta lontana dal parco “non mi è mai piaciuto come nome”

Continua…


venerdì 2 aprile 2021

LA PAROLA DEL GIORNO

 SHIP

La parola “ship” in sé non è altro che la traduzione letterale della parola “nave” in lingua inglese, ma che ha di particolare?

 


Qui è stata “italianizzata” ed è stata trasformata anche nel verbo “shippare” prendendo due diversi significati:

 

1.   Rubare, rapinare (più comune nel parlato)

Es: Mi hanno shippato il portafoglio – Mi hanno rubato il portafoglio

 2.  Vedere bene due persone in una relazione romantica (dalla parola inglese relationship)

Giulia e Chiara si tengono la mano, le shippo molto – Mi piacciono molto insieme e le vedo bene in una relazione

In questo caso è utilizzato anche come nome o aggettivo

Es: Valeria e Matteo formano una bella ship – Formano una bella coppia

Simone e Andrea sono molto shippabili – Sono facilmente apprezzabili insieme, è semplice vederli insieme romanticamente

 

Ma la parola Ship non si limita solo ai significati che le attribuiamo noi in Italiano, nella lingua d’origine, l’inglese, oltre a significare Nave è posta dopo diverse parole per indicarne una relazione:

Friendship: rapporto con gli amici

Relationship: rapporto in generale

Scholarship: rapporto con la scuola

 

oppure un’abilità

Leadership: abilità nell’essere un leader