di Morgana Piana
Gyllen camminava silenziosa tra la sabbia grigia, le macerie e il sangue secco.
Vedeva bambini, donne, uomini, vedeva le loro facce scavate, le loro ferite, quelle la cui infezione toccava le stringhe del cuore, la loro speranza e il loro abbandono, chi aiutava, chi chiedeva aiuto. Gyllen era una semplice ragazza di sabbia, compariva dove i sogni andavano scarseggiando come l’acqua e il cibo di quel luogo. Non sapeva dove fosse.
Poi vide un albero. Gli alberi non smettono mai di sognare, pensava Gyllen. La loro linfa era come la sua sabbia dorata, i loro rami si innalzavano verso il cielo per toccare le nuvole, finché non sarebbero morti le braccia avrebbero continuato a cercare di raggiungere quel sogno.
Albero: “Ciao, non mi sembra che la tua faccia mi sia familiare” disse, lentamente.
Gyllen: “No, provengo da un luogo fatto di ricordi e ricordi mai successi. Cos’è questo luogo?”
Albero: “Tante di quelle cose, tante storie, anche di secoli fa. Te la racconto. Ascolta.
Iniziamo dagli ultimi decenni dell’XIX secolo, quando molti Ebrei, oggetto di pesanti persecuzioni soprattutto nella Russia zarista, iniziarono a migrare in Palestina, che faceva allora parte dell’Impero Ottomano. Il «sionismo» diede una prospettiva al tempo stesso ideale e concreta all’aspirazione di migliaia di ebrei di fare ritorno nella «terra dei padri».
Nel 1917, già prima della fine del conflitto, il ministro degli Esteri britannico Balfour aveva promesso agli ebrei una “national home” in Palestina. Fu proprio la Gran Bretagna, dopo la guerra e la dissoluzione dell’Impero Ottomano, a ottenere dalla Società delle Nazioni il «mandato» sulla Palestina. Sia pure con qualche vincolo, l’immigrazione ebraica andò dunque intensificandosi, al prezzo di tensioni crescenti con le popolazioni arabe locali.
La Seconda guerra mondiale alimentò ulteriormente questi processi. Lo sterminio degli ebrei nella Germania nazista e nell’Europa centro-orientale rese ancora più forte l’aspirazione alla creazione di uno Stato ebraico. Crebbe di conseguenza l’ostilità da parte dei paesi arabi, che nel 1945 diedero vita alla Lega araba.
Con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947 l’ONU stabilì la divisione del territorio della Palestina tra le due popolazioni e la creazione di una zona a giurisdizione internazionale nella città di Gerusalemme. Quando la Gran Bretagna, nel maggio del 1948, ritirò dalla regione le proprie truppe, David Ben Gurion, capo di un governo provvisorio ebraico, proclamò il 14 maggio la nascita dello Stato di Israele. La creazione del nuovo Stato – subito riconosciuto dalle due grandi superpotenze, USA e URSS – fu invece condannata come atto unilaterale dai Paesi arabi. Ed ebbe inizio la lunga vicenda del conflitto israelo-palestinese.
La prima guerra arabo-israeliana ebbe inizio il 15 maggio 1948, il giorno successivo alla proclamazione dello Stato di Israele. Nel 1949 entrò nell’ONU e ciò accelerò l’immigrazione ebraica in Palestina e il drammatico esodo forzato di circa settecentomila palestinesi verso altri Paesi.
La seconda guerra arabo-israeliana si consumò nel 1956, nel contesto della «crisi di Suez», scoppiata in seguito alla decisione del governo egiziano – guidato da Nasser – di nazionalizzare il canale di Suez, snodo decisivo dei traffici commerciali tra Oriente e Occidente e di vitale interesse per la Francia e soprattutto la Gran Bretagna.
D’accordo con le due potenze europee per un’azione militare congiunta, Israele occupò allora, tra ottobre e novembre di quell’anno, la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza. Le pressioni e le minacce degli Stati Uniti e soprattutto dell’Unione Sovietica spinsero infatti le Nazioni Unite a condannare l’invasione.
E gli Israeliani furono costretti a ritirarsi dai territori occupati. Da allora gli incidenti e gli scontri di frontiera tra Arabi e Israeliani andarono moltiplicandosi e pochi anni dopo, nel 1964, nacque l’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
Tre anni più tardi, nel 1967, scoppiò il terzo conflitto arabo-israeliano, la cosiddetta «guerra dei sei giorni», seguita alla decisione egiziana di bloccare il transito delle navi dirette verso Israele attraverso il golfo di Aqaba. La risposta militare israeliana fu immediata e schiacciante. Avviò un processo di colonizzazione dei territori occupati, favorendo l’insediamento di coloni ebraici e facendo crescere lo sfruttamento e la subordinazione economica della popolazione palestinese. Al tempo stesso, anche di fronte al radicalizzarsi dell’OLP, prese a investire enormi risorse in sicurezza e spese militari, legandosi sempre più strettamente agli Stati Uniti.
È in questo quadro che scoppiò nel 1973 il quarto conflitto arabo-israeliano, la cosiddetta «guerra dello Yom Kippur», dal nome di una delle più importanti festività ebraiche.
L’attacco fu sferrato a sorpresa dall’Egitto e dalla Siria in quel giorno di festa e trovò in un primo momento impreparate le forze militari e di sicurezza di Israele. Con una efficace controffensiva, tuttavia, gli Israeliani riuscirono a respingere gli eserciti nemici e a spingersi sino alla capitale egiziana.
La guerra pose le premesse per gli accordi di Camp David (1978) e il trattato di pace di Washington tra Israele ed Egitto (1979). Con essi l’Egitto riconobbe lo Stato di Israele.
Seguì, nel 1987, la prima Intifada, una vera e propria rivolta che si protrasse fino al 1993, con scioperi, boicottaggi, violente manifestazioni di piazza che seminarono morte e distruzione generando un clima di odio tra i contendenti. Nel frattempo, però, maturarono spiragli di pace. Nel 1988, Yasser Arafat, leader dell’OLP, si dichiarò disposto a riconoscere l’esistenza di Israele.
Dopo la prima guerra del Golfo (1991) la questione israelo-palestinese sembrò avviarsi a una svolta.
Nel 1993, infatti, vennero siglati gli accordi di Oslo. In base ad essi fu concessa l’autonomia alla Striscia di Gaza, poi estesa anche a parti della Cisgiordania, e creata l’Autorità Nazionale Palestinese.
Si trattò, tuttavia, di una fragile tregua. Ripresero infatti vigore gli opposti estremismi della destra israeliana e del fondamentalismo islamico (che trovò il suo principale punto di riferimento in Hamas, un’organizzazione politico-militare islamista fondata nel 1987, che scatenò un’ondata di gravi attentati terroristici (anche suicidi) contro gli ebrei, generando in tal modo una sorta di «islamizzazione» della questione palestinese).
Nel 2000 ebbe inizio la seconda Intifada.
Una svolta importante ma tutt’altro che definitiva nel conflitto si ebbe nel 2005 con la decisione dell’allora capo del governo Ariel Sharon di porre fine all’occupazione della Striscia di Gaza, troppo gravosa per Israele.
Le elezioni del 2006 crearono tuttavia nuove fratture. Nella Striscia di Gaza – nel frattempo isolata e blindata su tutti i lati da Israele attraverso barriere, muri e blocchi navali e soggetta poi, dal 2007, a un pesantissimo embargo anche da parte egiziana – vinsero i radicali di Hamas.
Poi è arrivato quel fatidico 7 ottobre 2023.
L’attacco di Hamas è iniziato intorno alle 6.30 del mattino con un diluvio di razzi lanciati contro il territorio di Israele: circa 3.000 in poco meno di mezz’ora. Quasi contemporaneamente un numero imprecisato di miliziani di Hamas ha fatto irruzione nei territori israeliani prossimi alla Striscia di Gaza.
È iniziata allora una vera e propria strage di militari ma soprattutto di civili inermi, massacrati casa per casa, tra esecuzioni, stupri e violenze di ogni genere contro chiunque: donne, bambini, giovani, anziani, soldati.
La mattanza è durata per ore, fino a quando le forze militari e di sicurezza non sono riuscite a intervenire e ad arginare almeno in parte il massacro. Il bilancio è di circa 1.200 morti.
La risposta di Israele è stata istantanea e si è tradotta, lo stesso 7 ottobre, in un bombardamento di rappresaglia su Gaza City e nell’avvio dell’operazione «Spade di ferro», finalizzata alla distruzione di Hamas. L’8 ottobre è stato dichiarato ufficialmente lo stato di guerra, che nei primi giorni, accanto a martellanti raid aerei e missilistici, si è tradotto nel «blocco totale» della Striscia, privata dell’energia elettrica ed ermeticamente chiusa a qualsiasi rifornimento di generi alimentari, medicinali, carburante.
Il 27 ottobre l’ONU ha approvato a maggioranza una risoluzione per chiedere una tregua umanitaria nella Striscia, con il voto contrario di 14 paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, e 44 astenuti. Il giorno successivo, tuttavia, ha preso avvio l’invasione di terra.
Gyllen: “Una storia lunga e piena di tristi avvenimenti.”
Albero: “Non so, non so molto, a parte che il rancore è una sciagura dell’uomo. Tramandata nei secoli, non solo in questa storia ma in mille altre, di Stati e famiglie. Odio, invidia e potere al centro di tutto.
Avrei potuto vederli crescere quei bambini che ora muoiono di fame e fare loro ombra mentre giocavano da piccoli, si baciavano da grandi e sedevano al fresco da vecchi. Tanti miei uguali hanno visto tanto se non più dolore, dai Romani all’Olocausto, dagli stupri ai femminicidi, dalla Guerra in Vietnam all’Apartheid, dalle donne picchiate per un velo alle rivoluzioni socialiste, dal Fascismo al Sudan. Perché? Chissà, io le ragioni umane non posso comprenderle. So solo che quando gli alberi e le rocce piangono significa che quella voglia di potere é diventata troppo forte, un liquido scuro come il petrolio che prende la Terra e l’universo, e solo gli stessi umani che l’hanno prodotto possono fermalo. E io mi chiedo, lo vorranno mai?”